AudioRivista.it - Dante, selezione dalla Commedia a cura di Carlo Colognese - Parte Quinta - Hébergez gratuitement votre podcast sur Vodio.fr

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12min (13 Mo) - 24 mars 2021 Code copié Lien copié

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In questa parte della sua personale selezione Carlo Colognese commenta e legge il Canto Sesto della Divina Commedia. Il Canto è ambientato nel terzo girone dell’ Inferno, dove dimorano le anime che si sono macchiate in vita del peccato di gola. Dante vi giunge dopo essersi ripreso dal mancamento avuto alla fine del Canto precedente, il Quinto, in seguito all’incontro e al dialogo con Paolo e Francesca, vittime di passioni amorose. Ma adesso il tema centrale è di natura politica e l’ incontro con Ciacco offrirà l’ occasione al Poeta di soffermarsi sulla situazione a Firenze.



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Al tornar de la mente, che si chiusedinanzi a la pietà d’ i due cognati,che di trestizia tutto mi confuse,



novi tormenti e novi tormentatimi veggio intorno, come ch’io mi movae ch’io mi volga, e come che io guati.



Io sono al terzo cerchio, de la piovaetterna, maladetta, fredda e greve;regola e qualità mai non l’è nova.



Grandine grossa, acqua tinta e neveper l’aere tenebroso si riversa;pute la terra che questo riceve.



Cerbero, fiera crudele e diversa,con tre gole caninamente latrasovra la gente che quivi è sommersa.



Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,e ’l ventre largo, e unghiate le mani;graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.



Urlar li fa la pioggia come cani;de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;volgonsi spesso i miseri profani.



Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,le bocche aperse e mostrocci le sanne;non avea membro che tenesse fermo.



E ’l duca mio distese le sue spanne,prese la terra, e con piene le pugnala gittò dentro a le bramose canne.



Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,e si racqueta poi che ’l pasto morde,ché solo a divorarlo intende e pugna,



cotai si fecer quelle facce lordede lo demonio Cerbero, che ’ntronal’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.



Noi passavam su per l’ombre che adonala greve pioggia, e ponavam le piantesovra lor vanità che par persona.



Elle giacean per terra tutte quante,fuor d’una ch’a seder si levò, rattoch’ella ci vide passarsi davante.



«O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,mi disse, «riconoscimi, se sai:tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».



E io a lui: «L’angoscia che tu haiforse ti tira fuor de la mia mente,sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.



Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolenteloco se’ messo e hai sì fatta pena,che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».



Ed elli a me: «La tua città, ch’è pienad’invidia sì che già trabocca il sacco,seco mi tenne in la vita serena.



Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:per la dannosa colpa de la gola,come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.



E io anima trista non son sola,ché tutte queste a simil pena stannoper simil colpa». E più non fé parola.



Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affannomi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;ma dimmi, se tu sai, a che verranno



li cittadin de la città partita;s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagioneper che l’ha tanta discordia assalita».



E quelli a me: «Dopo lunga tencioneverranno al sangue, e la parte selvaggiacaccerà l’altra con molta offensione.



Poi appresso convien

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